“L’avvenuta espunzione dal testo dell’art.160 legge fall., come riformulato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile “ratione temporis”, dell’inciso, che prevedeva la possibilità per l’imprenditore di proporre il concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”, ha determinato il superamento del principio di prevenzione che correlava le due procedure, posponendo la pronuncia di fallimento al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell’impresa, senza peraltro che lo stesso, alla stregua dei principi generali vigenti in materia, possa oggi desumersi in via interpretativa. Ne deriva che, non ricorrendo un’ipotesi di pregiudizialità necessaria, il rapporto tra concordato preventivo e fallimento si atteggia come un fenomeno di consequenzialità (eventuale del fallimento, all’esito negativo della pronuncia di concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi di impugnazione del successivo fallimento) che determina una mera esigenza di coordinamento fra i due procedimenti”. Le Sezioni Unite sono intervenute sul tema dei rapporti tra la domanda di concordato preventivo ed il fallimento. Nella sentenza in questione la Corte ha stabilito che il rapporto tra concordato preventivo e fallimento è di consequenzialità (eventuale del fallimento, all’esito negativo della procedura di concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto del concordato in motivi d’impugnazione del successivo fallimento). In base alla vecchia formulazione dell’art. 160 Legge Fall., all’imprenditore veniva concessa la facoltà di proporre il concordato preventivo fino a che il suo fallimento non fosse stato dichiarato. Trovava, quindi, applicazione il criterio della prevenzione, in base al quale la pronuncia di fallimento era subordinata al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell’impresa. In questo senso, si era affermato l’orientamento secondo cui, qualora pendessero contemporaneamente le due procedure, il Tribunale avrebbe dovuto pronunciarsi sulla domanda di concordato anche se proposta dopo la richiesta di fallimento. Il D.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80 ha però eliminato l’inciso che consentiva di proporre domanda di concordato “fino a che il fallimento non è dichiarato”. Ne consegue che “la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore, che non potrebbe comunque disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, venendo così a paralizzare le iniziative recuperatorie del curatore e ad incidere negativamente sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo”. Tra le due procedure esiste dunque un rapporto di consequenzialità logica. Infatti, il decreto di annullamento del concordato preventivo non è autonomamente impugnabile per mancanza del necessario interesse. Ciò perché l’eventuale accoglimento dell’impugnazione non potrebbe avere alcuna incidenza sulla validità ed efficacia della sentenza di fallimento, che può essere revocata soltanto in caso di accoglimento di apposito reclamo. Tuttavia, la consequenzialità logica non determina anche una consequenzialità procedimentale, che porti alla sospensione del procedimento per la dichiarazione di fallimento in pendenza di una domanda di concordato preventivo. In questo caso, infatti, non sussiste una pregiudizialità necessaria ex art. 295 c.p.c., atteso che: a) le situazioni esaminate nelle due distinte procedure di fallimento e di concordato, non sono sovrapponibili; b) la sospensione è un istituto eccezionale che trova applicazione soltanto quando la situazione sostanziale dedotta nel processo pregiudicante rappresenti il fatto costitutivo di quella dedotta nella causa pregiudicata. La sentenza in commento ha chiarito, altresì, il sindacato del giudice in relazione alla fattibilità del piano concordatario. La Suprema Corte, in questa occasione, ha enunciato il principio di diritto, secondo cui al tribunale spetta il compito di controllare la corretta proposizione e il regolare andamento della procedura (a garanzia della corretta formazione del consenso dei creditori), mentre ai creditori è rimessa la valutazione in ordine alla convenienza economica della proposta. Il giudice non può, infatti, “esercitare un controllo sulla prognosi di realizzabilità dell’attivo nei termini indicati dall’imprenditore, esulando detta prognosi dalla causa del concordato come precedentemente delineata ed essendo la stessa rimessa alla valutazione dei creditori quali diretti interessati, una volta assicurata la corretta trasmissione dei dati ed acquisite le indicazioni del commissario giudiziale, nell’esercizio delle funzioni di controllo e di consulenza da lui svolte nella veste di ausiliario del giudice”. Nota dell’avv. Alfredo Sagliocco.
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